Sempre quel fatidico 28 agosto 2006 mette in moto una catena di eventi impensati e impensabili.
Sradica in maniera indelebile una vita decisamente particolare, per dar luce a un’altra, non meno intensa, diversa.
Dopo un intervento massacrante e un periodo passato a Singapore, ritorno a Bolzano, non voglio ricordare in che condizioni..
Cercano in tutti i modi a tenermi per la riabilitazione in Alto Adige, ma con tutta la forza mi oppongo e in comune accordo con la mia famiglia opto per la vicina Austria.
Il primo periodo è difficile, nonostante non mi faccio prendere dallo sconforto, habitat estremamente duttile e rassicurante in situazioni estreme come la mia.
All’inizio di un percorso poi molto obbligato, la tendenza di raccontarsi bianco per nero è facilissima, la famiglia dà poi un contributo essenziale a peggiorare le cose, anche se in maniera del tutto involontaria. La sindrome del sopravissuto..
Il primo mese passa con una lentezza spaventosa, notti in bianco, nonostante dosi letali di psicofarmaci e sonniferi, il continuo rutto emotivo, solo da una sorte di anestesia mentale si ferma.
Giorni che si susseguono, nei quali la priorità assoluta va data a quella brutta bestia che mi rosica il corpo cellula dopo cellula, bestia che porta il nome di decubito. Il rischio di lasciarci le penne è altissimo, pensate che un uomo come Christopher Reeves non muore per embolia o qualche altra, ma sempre più accettabile complicazione, no, muore di semplice e banale piaga da decubito.
Strano il destino, vero? Eppure poteva permettersi i medici, infermieri e cure più innovative, visto il patrimonio e la quello della fondazione.
Dopo un periodo passato a mettere insieme tutti gli elementi necessari per un mio futuro prossimo, la seconda doccia fredda: come un lampo ti cade dagli occhi, ti rendi conto che più conta le cose che NON sai fare, piuttosto quelle poche che lentamente sei in grado di ri-apprendere.
Ti tagliano il mangiare in una maniera che tu, “grand viveur” da sempre, dentro di te lentamente desideri una soluzione finale a questo status momentaneo, per poi finire di accettare anche quest’ultimo abbattimento di diritti privati e socio-culturali.
Forse per tanti, che davanti a un risotto alla mantovana, cotto in perfezione, si limitano a parlare di “cibo”, il mangiare non porta tanti dolori e nello stesso tempo gioie come per me. A me vedere una sogliola sfibrata duole, livella arte culinaria a mangime per porci.
Ecco, proprio questo succede, ti riducono a vegetale, ricordandoti sempre, che lo fanno per portarti in condizioni di maggiore indipendenza possibile.
Ricevi poi un laccio di pelle, dove infili un cucchiaio nella maniera più facile possibile e “mangia o crepa”.
Ebbene, NO!! Io non ci sto, tutto dentro di me grida alla rivolta, amplificato da questo pensiero della ghettizzazione forzato.
Nella vecchia maniera si spingeva la forchetta e il riso oppure la verdura spesso andava oltre il piatto. Va beh, direte.. una cosa cosi gli amici la capiscono, che te frega?
Si sono d’accordo sulla prima volta, ma la terza, l’ottava? E poi in ogni caso non andava bene per me.
Arriva il dì che mangi da solo e ti ritrovi con gli amici che si vergognano, e nemmeno tanto per la sporcizia, no si vergognano per te, tu che non riesci, ecco la realtà.
Arriva la prima uscita, questa volta con il mio hermano Fernando, già sconvolto dalla vestizione e ulteriormente stressato, nel senso buono ovviamente.
Siamo a cena al Royal e Fernando mi taglia la carne, da amico che è. Ma la taglia come è abituato lui, non certo come io, mangio con enorme fatica e, per essere onesti, con una certa tensione nervosa. Intuisco che la gente mi guarda: “Poveretto, mamma mia, che brutto”.. sento i loro pensieri e in quel momento un impeto di violenta rabbia mi pervade.
“Basta” grido dentro di me, non può essere questa la mia fine, il mio destino.
Ecco la motivazione iniziale che mi ha portato a riflettere e a creare Chripep®, utensili per Tetraplegici, oggi speranza di umana condizione di vita, per tante persone nelle mie condizioni.